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Sostenibilità aziendale: le imprese raccontano solo una parte della storia

21 luglio 2025/DiFrancesca Collevecchio
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Le aziende stanno davvero cambiando il loro modo di fare impresa per renderlo più sostenibile, oppure stanno solo rispondendo alle nuove regole europee? Francesca Collevecchio, in uno dei paper serviti da spunto di discussione per il recente convegno Sustainability disclosure: red tape or strategic tool for the future of business? (SDA Bocconi in collaborazione con l’Institute for European Policymaking@Bocconi University – IEP@BU), mostra che, anche tra le imprese che già si conformano alla Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD), il cambiamento è ancora parziale, diseguale e sbilanciato: le aziende si concentrano soprattutto sui rischi e sugli impatti negativi, mentre faticano a valorizzare le opportunità e gli impatti positivi, soprattutto sul piano sociale.

 

Una situazione che, secondo l’autrice, riflette una fase di transizione: le aziende sono ancora orientate alla gestione dei rischi, più che a un racconto proattivo della sostenibilità come leva strategica. Ma se la sostenibilità deve davvero diventare un motore di creazione di valore e non solo un adempimento normativo serve un cambio di passo.

Il contesto

Con l’introduzione della CSRD, l’Unione Europea ha alzato l’asticella delle aspettative in materia di sostenibilità aziendale – anche se rischia di riabbassarla con i provvedimenti di “semplificazione” della proposta Omnibus. Con la CSRD si passa da una logica volontaria a un obbligo normativo rigoroso e strutturato, pensato per rendere le pratiche di rendicontazione di sostenibilità più comparabili, affidabili e significative.

 

La CSRD sostituisce la precedente Non-Financial Reporting Directive (NFRD), giudicata spesso debole nei contenuti, poco vincolante e facilmente manipolabile a fini reputazionali. La nuova normativa introduce il principio della doppia materialità, che impone alle aziende di rendicontare sia gli effetti della sostenibilità sui risultati finanziari, sia l’impatto delle proprie attività sull’ambiente e sulla società. Inoltre, la direttiva estende l’obbligo di rendicontazione a circa 50.000 aziende in tutta Europa (contro le 11.000 della NFRD) e introduce l’obbligo di assurance esterna. La proposta Omnibus torna a restringere il numero delle imprese obbligate alla rendicontazione, al di sotto addirittura della NFRD.

 

La ricerca analizza la rendicontazione di sostenibilità di dieci grandi imprese francesi e italiane, da sempre considerate leader nel campo della sostenibilità aziendale, e offre una delle prime analisi empiriche dei documenti prodotti sotto il nuovo regime normativo. In particolare, indaga come le imprese stiano conducendo le valutazioni di doppia materialità, classificando Impatti, Rischi e Opportunità (IRO), e come strutturino le loro disclosure in base agli standard europei ESRS.

La ricerca

La ricerca si basa su un’analisi qualitativa condotta tra marzo e aprile 2025 su un campione selezionato di dieci grandi aziende con sede in Italia e Francia, operanti in settori diversi. Tutte erano già soggette alla precedente normativa (NFRD) e sono quindi tra gli “early adopters” della CSRD. L’analisi si è focalizzata su tre elementi:

 

  • le metodologie e la trasparenza delle valutazioni di doppia materialità;
  • l’identificazione e classificazione degli IRO;
  • la copertura tematica dei report in base agli standard ESRS, con un’attenzione particolare al pilastro sociale.

 

Nonostante la dimensione contenuta del campione, la profondità dell’analisi ha permesso di individuare pattern ricorrenti e criticità rilevanti nella fase iniziale di applicazione della direttiva.

Conclusioni e implicazioni

La ricerca evidenzia che l’adozione formale della CSRD non sempre si traduce in un’effettiva trasformazione culturale e strategica. I risultati mettono in luce alcune criticità ricorrenti:

 

  • Metodologie disomogenee: Le valutazioni di materialità variano sensibilmente tra le aziende, così come la granularità degli IRO identificati.
  • Focalizzazione sui rischi: Le aziende tendono a enfatizzare impatti negativi e rischi, mentre gli impatti positivi e le opportunità sono trattati in modo generico, spesso senza un chiaro legame con la strategia o i risultati finanziari.
  • Copertura incompleta degli standard: Alcuni ambiti ambientali (soprattutto biodiversità ed ecosistemi, ma anche inquinamento e risorse idriche e marine) sono sottorappresentati. Gli aspetti sociali indiretti, come le condizioni dei lavoratori nella catena del valore o l’impatto sulle comunità, sono parecchio trascurati.
  • Bias narrativo retrospettivo: I report tendono a presentare gli impatti positivi come già raggiunti, mentre quelli negativi sono ipotetici e proiettati nel futuro. Questo approccio consolida una narrativa reputazionale, più che una reale accountability.

 

In definitiva, la ricerca conferma che l’aspetto sociale (la S di ESG) è quello che presenta le maggiori difficoltà di rendicontazione – e le limitazioni introdotte da Omnibus rischiano di rendere ancora più difficoltosa la raccolta di questi dati, per esempio limitando il numero delle imprese della supply chain tenute a rendicontare i loro risultati. “Mentre l’impatto ambientale delle attività produttive è ampiamente riconosciuto e, per le imprese, è socialmente accettabile evidenziarlo, lo stesso non vale ancora per gli effetti sociali,” spiega Collevecchio.

 

Imprese e istituzioni dovrebbero, dunque, sforzarsi di aumentare la sensibilità sulle dimensioni meno attenzionate (tutto il comparto sociale e la biodiversità in campo ambientale), lavorando su formazione e consapevolezza delle persone.

 

Francesca Collevecchio, How companies are responding to the CSRD, Working Paper prepared for the IEP@BU–SDA Bocconi event Sustainability Disclosure: Red Tape or Strategic Tool for the Future of Business?

 

LEGGI gli altri articoli della serie su Sustainability Disclosure: Red Tape or Strategic Tool for the Future of Business?:

 

Goulard, Keraron - I dati sono strategici. Perché la proposta Omnibus potrebbe fare male alla competitività europea.